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L'ULTIMO DEI MOHICANI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 marzo 1993
 
di Michael Mann, con Daniel Day-Lewis, Madeleine Stowe, Patrice Chereau (Stati Uniti, 1992)
 
Il western è morto, evviva il western. Non se ne facevano praticamente più, ed eccone addirittura tre sui nostri schermi: conseguenza banalmente mercantile del clamoroso successo di BALLA COI LUPI, seguito da quello non meno inatteso de GLI SPIETATI? Desiderio encomiabile di confrontarsi con un olocausto emblematico, in epoca di rinnovate tensioni razziali e xenofobe? Esigenza espressiva di ritrovare l'efficacia drammatica della tipica stilizzazione offerta da praterie e saloon? O, ancora, rivisitazione di miti ed archetipi fortissimi, nel tentativo di rispondere a dialettiche ed angosce contemporanee?

Se è quest'ultima ipotesi a condurre al più affascinante e lucido fra questi western in circolazione (GLI SPIETATI, di Clint Eastwood: ovvero, come mostrare la Storia prima della Leggenda, la fatica di uccidere prima dei giochini con la pistola facile, la vita, insomma, prima del Sogno e dei risvegli che seguirono), è invece quella legata alla cultura, al territorio ed alla sua integrità (vogliamo definirla ecologica?) ad ispirare L'ULTIMO DEI MOHICANI.

Anche se la scarsa fedeltà al celebre testo di James Fenimore Cooper (fatto di per sé stesso trascurabile: se non fosse che qui la figlia del colonnello s'innamora non del Mohicano in questione, ma del bianchissimo, anche se notoriamente fascinoso Daniel Day-Lewis, adottato in gioventù' dai pellerossa... ) è uno degli appunti che sono stati mossi al film di Michael Mann, è praticamente impossibile non riferirsi a quella filosofia così tradizionalmente legata alla nostra educazione. E che che Mark Twain definiva sprezzantemente "quella specie di delirium tremens letterario, privo di ogni verosimiglianza e realismo". Mark Twain avrà anche avuto le sue ragioni: ma quella di Cooper voleva essere tutto fuorché un'evocazione reale e veridica. Era quella di un mondo mitico: nel quale confrontare il civilizzato ed il primitivo, la convenzione sociale e la semplicità. Il passaggio - tramite la violenza - dal mondo antico (dell'Europa coloniale, ma anche dell'antica civiltà indiana) a quello dell'America nascente. Un mondo utopistico, con il pioniere e l'Indiano respinti sempre più ad Ovest, modelli originali della figura del cowboy: specie di cavaliere senza titolo e territorio, destinato ad occupare lo spazio della Prateria. E questa, infine, a significare le antitesi del mito americano: quelle del bene e del male, dell'innocenza e dell'esperienza, della luce e delle tenebre.

È a quel paradiso perduto, a quella dimensione incantata nel quale le utopie del sogno americano erano destinate a riprodursi, che che si rifanno, complice la magnifica fotografia di Dante Spinotti, le cose migliori del film. Sullo sfondo delle ciniche battaglie tra anglosassoni e francesi, tutti presi a spartirsi le terre degli indiani, il contrastato amore fra la bianca Cora e l'abbronzato Occhio di Falco (mentre Uncas, l'ultimo dei Mohicani ripiegherebbe - destino permettendo - sulla sorellina) s'inserisce in una natura gloriosamente colta con un'aderenza fisica, ed a tratti significativa.

Peccato che Michael Mann (un passato soprattutto di produttore televisivo, con la serie Miami Vice) si perda negli aneddoti di un romanzo che si fa tortuoso: invece di quella dimensione fantastica che sembra affiorare nei momenti migliori (la caccia ai daini, la presenza incantata dei fenomeni naturali) L'ULTIMO DEI MOHICANI arrischia di riapprodare ai soliti schemi dei western tradizionali.


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